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lunedì 24 novembre 2014

LE TRAGEDIE DI SENECA - Fedra - analisi

SCHEDA DULLA TRAGEDIA FEDRA DI SENECA

IL MITO: varianti del mito accolte da Seneca

Il testo di Seneca, messo a confronto la tragedia Ippolito di Euripide, presenta numerose e radicali differenze nello sviluppo del medesimo mito. Innanzitutto il titolo, nella tragedia di Seneca, dice di una maggiore attenzione focalizzata sul personaggio di Fedra, perché a Seneca interessa prendere in esame il comportamento umano più che quello divino, le passioni che possono trascinare l’uomo alla morte più che il rapporto con la divinità, che per l’Ippolito di Euripide vuole essere di pura affezione. Questo comporta un notevole cambiamento nella figura di Ippolito, che ora non è più caratterizzato dall’amore puro e totalizzante per la dea Artemide (o Diana per il contesto latino), ma dal disprezzo per il genere femminile e, più in generale, per il potere, che porta con sé i vizi, fino ad arrivare all’umanità intera. Quello di Seneca è un Ippolito che fugge la città, che evita il contatto con gli altri uomini per preservare la propria purezza, convinto che nella solitudine sia impossibile nuocere ad alcuno. È un Ippolito cosciente della sua purezza, e che indirizza ogni sua scelta alla sua conservazione nel disprezzo totale per tutto il resto della realtà.
Tutta l’attenzione è quindi focalizzata su Fedra, di cui viene esasperata la passione che la divora, molto più che in Euripide: infatti la Fedra di Seneca perde qualsiasi attaccamento all’onore, che invece era risultata l’ultima spiaggia della Fedra precedente. Per sottolineare questo aspetto, Seneca sceglie di eliminare il tradimento della nutrice, in entrambi i testi personaggio fondamentale, e di far rivelare alla stessa madre la verità dei suoi sentimenti ad Ippolito. Questa variante viene poi esasperata nella scelta di eliminare l’inganno  che la Fedra euripidea aveva escogitato per la salvaguardia della sua dignità, ultima cosa che le era rimasta: qui invece la donna sembra non avere altra preoccupazione se non la sua devastante e dilaniante passione, divenuta ormai incontrollabile. Sarà infatti la nutrice, cui sta a cuore preservare l’onore della signora, che avrà l’idea di presentare Fedra come vittima dello stupro, salvandola dalla potenziale ira del marito tornato a casa. Ma Seneca vuole affermare la sua scelta, la sua linea ancora più palesemente facendo confessare la sua colpa a Fedra davanti a Teseo, poco prima di uccidersi.
Non molto differente è invece la figura del marito, che in Seneca non condivide nessun dialogo con Ippolito, ma che condivide con l’omonimo euripideo la tristissima e disperata sorte, qui forse più accentuata dalla forte scelta di Seneca di farlo prima morire e poi resuscitare. Teseo sarebbe infatti tornato dal mondo dei morti senza alcun senso evidente, se non quello di uccidere suo figlio, godendone ed essendone insieme afflitto, e di assistere al suicidio dell’amata moglie. Che disperazione in un uomo risuscitato per macchiarsi di una colpa gravissima e per distruggere ciò che più amava e che almeno da morto aveva lasciato integro; non stupisce quindi se è sulle labbra di Teseo che sentiamo più spesso pronunciate le parole “fato funesto” e “destino crudele” e insensato, che pone un altro livello di rapporto con dio: quello dell’ostilità verso una sorte cieca.
Ma la variante più interessante, che centra anche con il tema del rapporto con gli dei, è in realtà l’osservazione di una mancanza, evidente nel paragone con l’Ippolito di Euridipe e soprattutto se si nota chi, nelle due tragedie, svela la verità dei fatti. Mentre nel mito euripideo siamo stupiti dalla presenza della divinità che apre la scena e la chiude con addirittura l’intervento divino di Artemide, unico per il mondo classico, nella tragedia di Seneca non possiamo non rimanere colpiti dalla mancanza di un rapporto con la divinità. Esso è espresso solamente attraverso i riferimenti nei discorsi e il racconto del prodigio di Nettuno che ha ucciso Ippolito. È infatti la stessa Fedra a svelare l’inganno della nutrice e la sua ipocrisia, mentre in Euripide è Artemide a rivelare la verità. A ben pensarci, sembra addirittura che la passione amorosa non sia provocata dalla dea, ma sorga spontaneamente nel cuore della madre; mentre Euripide specifica l’azione vendicativa di Afrodite nei confronti di Ippolito attraverso Fedra.

L’ETHOS: passi in cui risulta l’analisi psicologica, e in particolare il contrasti fra passioni e bona mens

La tematica dell’ethos è il punto fondamentale del messaggio educativo che Seneca vuole trasmettere al lettore. A tema infatti di ogni tragedia c’è il contrasto fra vizi e virtù, cioè fra passione frenata e capacità di controllare i sentimenti, l’equilibrio, la bona mens. Nell’analisi psicologica del personaggio di Fedra, che è il punto focale di tutta la tragedia, è infatti evidente una lotta, già persa in partenza, tra la travolgente passione amorosa e almeno il tentativo di nascondere questa colpa, di preservare il proprio onore. Ma tutti i tentativi cadono davanti alla forza irresistibile di questo amore insano.
Tutto il dialogo iniziale tra Fedra e la nutrice è rappresentativo di questa lotta, che per la nutrice è una questione di volontà, mentre per Fedra è una situazione di impotenza. Alla fiamma divoratrice viene infatti opposto un discorso moralista che invita a spegnere il fuoco della passione, a imparare a domarlo, a riflettere sulle conseguenze, a lasciarsi consigliare dal timore verso il marito. Per la nutrice il “voler guarire è l’inizio della guarigione”, ma il problema di Fedra è un’impotenza della volontà ad uscire dal male: l’unica via possibile per lei sarà infatti la morte come liberazione delle colpe.
Ma fallisce quindi l’etica di comportamento proposta da Seneca? Esiste un punto di non ritorno da cui l’uomo non può sottrarsi applicando uno schema di comportamento?

IL POTERE: passi in cui è svolto il tema della negatività del potere

Così dice a Fedra la nutrice nel primo dialogo che apre la tragedia, ammonendola per la sua passione:

Quando il benessere è troppo e si nuota nell’opulenza, nasce la cupidigia del nuovo. È allora che si insinua la libidine, questa crudele compagna della fortuna. Il solito cibo, una casa giusta e modesta, un comune boccale non bastano più. Nelle famiglie degli umili, perché si insinua di rado questa luce che sceglie ivnvece le case altolocate? Perché sotto umile tetto vive casto l’amore, perché la gente modesta ha desideri sani, e sa frenarli? Perché ricchi e potenti bramano invece più di quel che è lecito? Chi troppo può, vuol potere quello che non si può.


E così pronuncia Ippolito nel suo primo intervento lungo, rivolto alla nutrice:

Che cosa bevono i potenti in quelle coppe d’oro? Affanni. […] Dorme più tranquillo chi si affida a un duro giaciglio. Non medita da malvagio, nel buio della sua stanza, amori furtivi, non si nasconde da vile nei recessi del palazzo. Cerca l’aria e la luce, il cielo è testimone della sua vita. Sono certo che vivevano così gli uomini che la prima età generò insieme agli dei. Non conoscevano la cieca brama dell’oro […]

Il potere qui chiamati in causa non è quello politico, ma quello materiale: la ricchezza, l’eccessiva abbondanza. Si può capire, prendendo in considerazione il messaggio principale che Seneca vuole trasmettere al lettore (rifiuto di ogni eccesso in favore del virtuoso equilibrio) perché viene rifiutata l’opulenza. Essa deturpa l’uomo, come ogni vizio che nasce dall’eccesso.
Questo tema riecheggia inoltre una concezione espressa anche dagli storici latini che tentano di spiegare le ragioni del crollo dell’impero romano, che vengono identificate in un crollo della morale, a partire da una pace troppo prolungata e da un eccesso di benessere che ha reso flaccidi ed effeminati gli animi romani (per esempio Sallustio). È l’ambiente di ricchezza che fa da terreno fertile al vizio, o addirittura è condizione per cui esso si genera. Per questo Ippolito, che vuole mantenersi puro, rigetta qualsiasi tipo di potere materiale scegliendo di condurre la sua esistenza nei boschi.

DEI E UOMINI: quale sembra essere la concezione degli dei? Esiste l’idea di fato come destino razionale e provvidenziale? Esiste un’idea di fortuna cieca? Esiste una concezione dell’al di là?

C’è un dio che possa aiutarla, nel suo delirio, la sventurata che sono?
Un dio troppo potente sta domando il mio cuore.
Venere odia la stirpe del sole. Si vendica su di noi […]
L’amore è un dio? Questo lo dice la libidine. Per essere più libera ha dato il nome di un dio alle sue voglie.
Il potere di Venere e l’arco di Cupido se li è inventati una mente delirante.

Queste frasi estrapolate dal primo dialogo che hanno Fedra e la nutrice dicono di sue posizioni diverse nei confronti degli dei: da una parte Fedra accusa a Cupido la responsabilità della sua passione e si sente abbandonata dagli dei che non intervengono togliendole di dosso il male che l’assale, incolpando il destino crudele, e nello stesso tempo contraddicendosi e additando ad essa stessa la colpa. Dall’altra parte c’è invece la nutrice, più razionalista e moralista, che ricolloca la responsabilità del vizio alla donna, arrivando a mettere in dubbio l’esistenza delle divinità tradizionali.
Fedra non è la sola ad invocare l’intervento da parte della provvidenza divina, caratteristica dello stoicismo, condiviso da Seneca stesso: anche Ippolito, scoperta la passione della madre, ne invoca la morte da parte degli dei, in nome della giustizia che punisce l’impurità (notiamo il suo attaccamento alla purezza dal suo sconvolgimento, che arriva fino a tentarlo di uccidere lui stesso la madre, paradosso per chi vuole conservarsi integro! L’Ippolito di Euripide invece, pur sbalordito dai sentimenti della madre, prova per lei pietà). Lo stesso fa Teseo quando, ingannato dalla moglie, gli viene fatto credere lo stupro; lancia quindi la sua maledizione contro il figlio invocando il padre Nettuno di esaudirlo. Molti personaggi invocano quindi un intervento divino particolare: quello che esaudisca le preghiere e i progetti dell’uomo, la realizzazione dei quali non si rivela però un bene, anzi un male distruttivo e disarmante. Perché dio accetta di esaudire l’uomo se i suoi desideri portano ad un male? È dunque la pronoia un bene o un male per l’uomo? La provvidenza in sé risulta insufficiente. Riecheggia quindi il verso del’Ippolito euripideo in cui il servo pregava gli dei di essere più saggi dell’uomo.
Infine Teseo pone un’altra posizione del rapporto con gli dei, sostituendoli con la Τύχη greca: propone una visione della vita retta da una fortuna cieca e distruttiva:

Terribili travolgono gli eventi / la vita degli uomini.

Sembra ricalcare questa visione l’insistenza con cui si sottolinea che il corpo del defunto Ippolito viene ricomposto avvicinando tra loro le membra “a casaccio”.
Infine, nella tragedia è rintracciabile una concezione dell’aldilà: viene accettata infatti la tradizione per cui esiste un regno dei morti (Tartaro) retto da un dio (Plutone per i latini), che non permette agli uomini di ripercorrere il viaggio al contrario. È stato permesso solo a pochi, incluso Teseo ed Ercole.

IL CORO: qual è la funzione dei brani corali?

Notiamo in modo evidente la ripresa della funzione del coro, che non si limita ad un breve intermezzo musicale di danze e canti improvvisato di volta in volta e slegato dalla vicenda rappresentata, come lo era per la commedia ellenistica. Qui il coro è di nuovo un personaggio collettivo, che però interagisce scarsamente con gli altri personaggi, a differenza del coro della tragedia classica. La sua funzione infatti è quella di concludere una scena e di introdurne una nuova (notiamo infatti l’ultimo verso che presenta l’entrata di un personaggio), interrompendo la vicenda con racconti mitici, descrizioni, invocazioni o commenti di ciò che è appena accaduto.

LO STILE: caratteristiche dello stile di Seneca e del gusto dell’epoca

Possiamo rintracciare in alcune scelte di Seneca il gusto dell’epoca per il macabro, l’orrido, il sangue, il compiacimento nel mostrare orrori, nel presentare elementi di stregoneria, di mistero, che rendono più attraente la rappresentazione, che manca della presenza diretta della divinità.
-          Il ritorno di Teseo dal regno dei morti
-          La descrizione della morte di Ippolito da parte dell’araldo fino nei dettagli, descrivendo il sangue, il corpo trafitto, il viso sfigurato dai sassi, le carni straziate dagli arbusti
-          Il suicidio di Fedra messo in scena (ricordo che nella tragedia classica le morti erano solamente raccontate da altri personaggi, con l’eccezione di Aiace)
-          Il coro che fa riferimento ad elementi magici e a pratiche di stregoneria (Una maga tessala l’affascina, tememmo noi a quel torbido lume e, per scongiuro, facemmo tintinnare metalli.)

TECNICA TEATRALE

Spesso la critica esprime una perplessità sulla reale rappresentabilità delle tragedie di Seneca, ritenendo che esse siano state scritte puramente per la declamazione. A favore di questa tesi è la struttura della tragedia, mancante d’azione e ricca di dialoghi, sviluppati solo tra due personaggi. La lunghezza delle battute ricalca lo scopo che la tragedia ha per Seneca: l’insegnamento morale, e questo va a discapito dell’azione teatrale. L’unico grande avvenimento presente nel testo, il suicidio di Fedra, è difficilmente rappresentabile, per la sua stessa natura.

Si nota poi il numero ristretto di personaggi.

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