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martedì 16 settembre 2014

IL CLASSICISMO - Tema

Che riflessione complessiva possiamo fare sul rapporto con la tradizione classica (classica nel senso greco-latina ma anche di classica italiana)? Sviluppa in una forma di saggio breve.

Ciascun autore della letteratura italiana, nell’atto dello scrivere ha dovuto chiedersi che rapporto mantenere con la tradizione classica (sia quella greco-latina, che quella italiana). Tre sono le diverse modalità con cui rapportarsi con la storia che si ha alle spalle: l’emulazione totale delle forme e dei contenuti, il rifiuto assoluto del passato a favore di forme nuove per contenuti nuovi, la creazione di qualcosa di nuovo a partire da una coscienza storica e dal riconoscimento di un’appartenenza a quella stessa tradizione.

1.      L’emulazione
La trasposizione cieca e anacronistica delle forme antiche portò gli autori che scelsero questa strada ad un rapporto di alienamento con la tradizione, esaltata a tal punto da sopprimere un messaggio creativo da parte del poeta, sterilizzando così la letteratura da lui prodotta, destinata a non avere alcun impatto con la realtà. È questa la sorte del classicismo che ha caratterizzato tutto il secolo del ‘400, in cui la preoccupazione per l’esaltazione dell’antico, il ritorno alla lingua latina a discapito del volgare, non lasciarono spazio a nulla di nuovo. C’è, inoltre, un grande rischio in questa scelta: quello di fraintendere o di esagerare alcuni aspetti, riportando la propria idea di antichità come veritiera ed autentica. Un esempio lampante di ciò è la ballata di Lorenzo de’Medici, che celebra il trionfo della sregolatezza, invita a godere dei piaceri della vita finché sia possibile:

Quant’è bella giovinezza
Che si fugge tuttavia:
chi vuol esser lieto, sia,
di doman non c’è certezza.

Ecco come il famoso carpe diem oraziano viene riproposto, ma sminuito, ridotto, svuotato del suo significato più profondo e autentico, che verte, in realtà, sulla parola che precede il “cogli l’attimo”, cioè sapias, “sii saggia”. Questo amorevole messaggio rivolto alla giovane Leuconoe viene manipolato e storpiato in un immorale invito a divertirsi finché non si invecchia.
Si ripropone una mitologia muta e ideale, si ricerca l’aurea di grandezza che avvolge i Greci e i Latini, si ripropongono i metri latini e greci a sfavore dell’esametro, si descrivono ambienti pastorali idealizzati e irreali. Tutto questo è il mondo dell’Accademia dell’Arcadia, un secondo esempio di come nella letteratura italiana il classicismo è stato seguito in modo totalizzante; infatti, mentre questo circolo di intellettuali si dilettava tra di loro di una poesia vuota, che aveva come tema il nulla, intorno a loro imperversava il secolo delle rivoluzioni, dell’innovazione, il Settecento illuminista. Come la letteratura può diventare strumento per estraniarsi dalla realtà, se non viene attuato un paragone critico e cosciente con il presente e con se stessi! Ecco che cosa producevano questi letterati, una poesia che ha per tema il nulla: cito l’esempio della poesia Sede alle Grazie, nido agli Amori di Paolo Rolli, che voglio riportare per intero, rendendo evidente così che l’intera poesia tratta del vuoto:

Sede alle Grazie, nido agli Amori,
conca di perle, bocca onde stillano
dolcezze e spirano soavi odori,

Amor composeti quel tumidetto
Vivace labbro sotto al bellissimo,
gentil, sensibile naso perfetto,

e disse a Venere: - Per sì bel labbro
prendo il modello dell’arco proprio;
sovra poi spargovi divin cinabro,

ove rosseggino d’almi diletti
fiamme che accendono in petto nobile
irresistibile desio d’affetti;

già dalla fulgida vaga tua stella,
felice nascita sortì l’altr’alma,
per cui riserbasi bocca s’ bella;

e per reciproca maggior fortuna,
dono rarissimo conosceranno
ambe ogni pregio che in lor s’aduna.

Queste ampie descrizioni, la scelta delle parole meno usate, la ripresa della mitologia e delle divinità pagane, un ordine delle parole costruito artificialmente: tutti gli elementi che caratterizzano questo tipo di poesia dalla forma perfetta e dal contenuto effettivo nullo.
Ma chi dedica la sua vita allo studio della classicità non ne è necessariamente alienato; l’esempio più lampante è Pietro Bembo, un grande intellettuale che ha il merito di aver proposto la soluzione migliore nel dibattito sulla lingua che si sviluppò nel Rinascimento. Davanti alla problematica su quale fosse la lingua e successivamente il modello da adottare per una comunicazione condivisa in tutta Italia ed espressiva di una nazionalità, propose una lingua letteraria e circoscritta a tre autori: Dante, Petrarca, Boccaccio. Anche lui aveva studiato molto la Grecia, il mondo romano, anche lui amava la letteratura classica, ma è evidente che questo studio non fu per lui fine a se stesso, non fu da lui assolutizzato e cristallizzato, ma usufruito per rispondere alle necessità e ai problemi del suo tempo. Ecco uno studio utile alla realtà.


2.      Il rifiuto
Troviamo poi una tendenza diametralmente opposta a quella appena descritta: quella di mettersi in netta opposizione rispetto al passato, che quindi viene riconosciuto, in forza di una forma nuova adatta a contenuti nuovi. Questa critica, pur essendo assolutamente lecita e anche interessante, può però degenerare in un rifiuto cieco delle proprie radici, della propria storia, finendo poi per allontanare anche ciò che c’è di bello, di buono e di utile in essa. Non troviamo esperienze così radicali in Italia, perché si è sempre guardato alle proprie origini con fierezza e con la tendenza ad esaltarne la tradizione; per questo riporto solamente un esempio a favore di questo argomento, e cioè l’esperienza di novità più forte che si può trovare perché essa stessa si concepiva come innovativa e si proponeva come “rivoluzionaria”: il periodico giornalistico il Caffè.
La novità che presenta è per diversi punti di vista, come leggiamo nell’articolo di apertura della rivista:

Cos’è questo "Caffè"? È un foglio di stampa che si pubblicherà ogni dieci giorniCosa conterrà questo foglio di stampa? Cose varie, cose disparatissime, cose inedite, cose fatte da diversi autori, cose tutte dirette alla pubblica utilità. Va bene: ma con quale stile saranno eglino scritti questi fogli? Con ogni stile, che non annoiE sin a quando fate voi conto di continuare quest’opera? Insin a tanto che avranno spaccio. Se il pubblico si determina a leggerli, noi continueremo per un anno, e per più ancora, e in fine d’ogni anno dei trentasei fogli se ne farà un tomo di mole discreta: se poi il pubblico non li legge, la nostra fatica sarebbe inutile, perciò ci fermeremo anche al quarto, anche al terzo foglio di stampa. Qual fine vi ha fatto nascere un tal progetto? Il fine d’una aggradevole occupazione per noi, il fine di far quel bene, che possiamo alla nostra patria, il fine di spargere delle utili cognizioni fra i nostri cittadini, divertendoli, come già altrove fecero e Steele, e Swift, e Addison, e Pope, ed altri. Ma perché chiamate questi fogli "Il Caffè"? Ve lo dirò; ma andiamo a capo.

L’immedesimazione nel lettore tanto da prevenirne le domande, la scelta di una rivista pubblicata periodicamente, la vastità degli argomenti; la decisione di trattare di problematiche attuali, l’invito alla critica, l’apertura della letteratura al contributo di tutti “diversi autori” affinché sia attuabile l’utilità ed il bene comune; la predilezione di uno stile che sia diretto, chiaro, facile, “che non annoi” affinché il lettore sia aiutato e non osteggiato dalla difficoltà della sintassi e non debba essere colto per comprendere i riferimenti testuali; l’assenza della preoccupazione della gloria personale, ma la scelta di concentrare le forze alla creazione di qualcosa che nello stesso tempo diverta e sia utile per tutti. Non stupisce che il modello adottato da loro non sia la tradizione italiana, ma quella inglese con “Steele, e Swift, e Addison, e Pope, ed altri”.


3.      La ricreazione
C’è infine un’ultima modalità di rapportarsi con il passato, la più interessante. Partiamo subito dal testo.

Così a l’egro fanciul progiamo aspersi
Di soavi licor gli orli del vaso:
succhi amari ingannati ei beve,
e da l’inganno suo vita riceve.

Per chi fosse in dubbio, questo passo è tratto dalla Gerusalemme liberata di Torquato Tasso; ma non biasimo perché ci si poteva confondere con un altro autore da cui il sorrentino (?) ha preso ispirazione: il poeta latino Lucrezio. Nel proemio del suo poema, Tasso riporta la metafora del fanciullo che, malato, gli si dà da bere l’amara medicina in un bicchiere dal bordo zuccherato: così verrà nello stesso tempo guarito e dilettato. È questa l’alternativa alle modalità precedentemente esposte; studiare le proprie origini, porsi in un distacco critico per poter giudicare ciò che si legge, paragonare se stesso con il messaggio espresso, criticare ciò che è inutile o dannoso, sbagliato, conservare ciò che è buono per sé. in questo modo un uomo può essere educato anche da uomini vissuti secoli e secoli fa. Giudicare il brutto, custodire il bello di ciò che si vede, si sente, si sperimenta, si studia. Tasso vide nella metafora di Lucrezio una concezione di poesia che fece sua: una letteratura votata alla salvezza dell’uomo (la cura del bambino dalla morte della malattia) attraverso la bellezza, anche estetica, della forma, che pure attrae e affascina l’uomo (la dolcezza dello zucchero).
Questa capacità di “ricreazione” parte da un metodo di studio ben preciso, da una concezione di realtà come ciò che educa l’uomo, arricchendolo nel tempo. È nel paragonare, criticare, giudicare, esaltare, scartare che deriva la ricchezza grazie a cui un autore può comunicare un proprio messaggio ponendosi all’interno di una storia. Il metodo descritto spiega la scelta di Giuseppe Parini di conservare una forma classica ai suoi scritti, nonostante intorno a lui imperversi l’Illuminismo rivoluzionario, che invitava ad una forma più semplificata e diretta di scrittura. Una scelta anacronistica? Rispondiamo col proporre un brano tratto da Il giorno.

Sorge il mattino in compagnia dell’alba
Dinanzi al sol che di poi grande appare
Su l’estremo orizzonte a render lieti
Gli animali e le piante e i campi e l’onde.
Allora il buon villan sorge dal caro
Letto cui la fedel moglie e i minori
Suoi figlioletti intiepidir la notte:
poi sul collo recando i sacri arnesi
che prima ritrovâr Cerere, e Pale,
va col bue lento innanzi al campo, e scuote
lungo il picciol sentier da’ curvi rami
il rugiadoso umor che, quasi gemma,
i nascenti del sol raggi rifrange.

Ecco una meravigliosa descrizione dell’alba, del lento sorgere del mattino, piano e dolce per il contadino che si risveglia tra il calore della sua famiglia; e si prepara al lavoro, faticoso ma necessario all’uomo per essere più completo, per poter portare a casa il pane e dar da mangiare ai figlioli, per produrre qualcosa nel mondo. La limpida bellezza testuale proviene necessariamente da una tradizione, da una storia ben studiata da Parini; ripropone addirittura dei riferimenti mitologici: Cerere e Pale, che tra le divinità classiche erano rispettivamente la dea delle messi e la dea della pastorizia. Tutta questa lieve descrizione, questa ricerca del bello non è però slegata dal fine del testo stesso, non è chiusa in sé, ma utile ai fini del messaggio dell’autore; vediamo come, proseguendo nella lettura:

Ma che? tu inorridisci, e mostri in capo,
qual istrice pungente, irti i capegli
al suon di mie parole? Ah non è questo,
signore, il tuo mattin. Tu col cadente
sol non sedesti a parca mensa, e al lume
dell’incerto crepuscolo non gisti
jeri a corcarti in male agiate piume,
come dannato è a far l’umile vulgo.
A voi celeste prole, a voi concilio
di Semidei terreni altro concesse
Giove benigno: e con altr’arti e leggi
per novo calle a me convien guidarvi.

Questo testo satirico, infatti, non tratta di campagnoli, di campi e di mansueti animali, ma è un messaggio indirizzato direttamente ai nobili italiani, un incoraggiamento a riprendere coscienza di sé per poter riprendere in mano il compito a loro assegnato, cioè la responsabilità politica del bene comune. Per fare questo sbatte letteralmente loro in faccia la vita sregolata che conducono nell’oblio dei loro doveri, nello sperpero delle finanze non per il popolo di cui hanno la responsabilità, ma per loro stessi in un inutile lusso. L’affiancamento della modesta vita di un qualsiasi contadino, più povera ma non vuota, è sia per un senso estetico, ma soprattutto per mettere ancora più in evidenza gli errori dei nobili, ricchi di denaro ma non ricchi di cuore. Possiamo ancora considerare la scelta di Parini anacronistica? Non direi.


Ora, davanti al testo di un autore, abbiamo gli strumenti per misurarne l’effettiva maturità, e non la quantità di conoscenza da lui assorbita nello studio, che può essere molto vasta, ma poco profonda. Noi stessi, se volessimo scrivere un racconto, un testo teatrale, un copione da cinema, un sonetto, dovremmo fare i conti con il nostro passato, e scegliere come porci di fronte ad esso: se puramente copiarlo, se rifiutarlo, se giudicarlo.

UGO FOSCOLO

UGO FOSCOLO

Il suo vero nome è Niccolò, figlio di un medico veneziano e di Diamantina Spati, una greca che generò a Zante il poeta come primogenito, poi altri due fratelli, che moriranno suicidi (per uno dei quali dedica la poesia Alla morte del fratello Giovanni), e una sorellina. La morte del padre mentre lui era ancora piccolo, e quindi incapace ancora di lavorare, getta la famiglia in una grave difficoltà economica. Lui, per il suo caratterino impossibile, viene mandato dagli zii. A scuola mostra subito un grande talento per la letteratura e una predisposizione per le lingue classiche, sviluppa immediatamente il senso per la bellezza, che lo accompagnerà per tutta la sua vita da poeta. Si trasferisce quindi dalla Grecia a Venezia, dove, seppur poverissimo, frequenta i salotti di impronta illuministico-francese dove, talentuoso ed orgoglioso, conduce una vita che è al di là delle sue possibilità economiche. D’altra parte, rifiuta assolutamente di vendersi ad un potente per essere mantenuto a costo di qualche composizione, accettando quindi una vita di sacrifici e di miseria. Questa compagnia lo forma come un vero illuminista, tanto rinominarsi Ugo, in onore di Ugo Basserville, un francese trasferitosi a Roma per diffondervi le nuove idee della rivoluzione, ma che fu ucciso per linciaggio dopo l’ennesimo invito alla violenza contro il papa durante una festa religiosa. Nella compagnia dei salotti passa da una ragazza all’altra, e la sua prima donna è Isabella, lei di trentasei anni e lui di quindici appena. Vede nella figura di Napoleone il liberatore dell’Italia, e ripone in questa figura politica una grande speranza, tanto di mobilitarsi come soldato e combattere per lui, attesa che verrà poi delusa amaramente quando il condottiero venderà la Repubblica di Venezia per concordare la pace con l’Austria; arriva addirittura a scegliere l’esilio volontario, e a vagare per il mondo fino alla sua morte. Tutta la sua vita si gioca su un dualismo: delusione ed illusione, desiderio del cuore umano e realtà effettiva. Una realtà che lui riduce a ciò che i sensi percepiscono, che è destinata ad un’inesorabile corruzione che la porta alla morte secondo la teoria dei sensisti che assunse con la sua formazione all’Illuminismo. Dio, l’anima, tutto ciò di cui non si ha esperienza sensoriale, non esiste. Ma togliendo tutta questa parte della realtà, cosa rimane? Foscolo vede davanti a sé una realtà incenerita, sa che i colori brillanti un giorno diventeranno grigi, vede una realtà impregnata dal dolore e dall’insoddisfazione, e non ne conosce il senso. Cosa può predominare allora se non la visione della morte? Davanti a questo mondo votato alla fine cosa può fare l’uomo se il suo cuore desidera qualcosa che superi la morte stessa? Come può l’uomo, che desidera l’infinito, sopportare una vita votata a ciò che è finito, circondata di polvere? Grazie all’illusione: per rendere la realtà tollerabile ci si deve illudere, e credere nella bellezza, nella verità, nella dignità, accrescere se stesso, affermare la propria grandezza, distrarsi, pur sapendo la verità. Che amarezza infinita! È come le sorellastre di Cenerentola, che, per riuscire ad infilarsi al piede una realtà troppo piccola per la loro taglia, si sono tagliate l’alluce o il tallone, fingendo poi di stare benissimo, di camminare con la grazia di una principessa.
Due sono le possibilità per l’uomo: o il suicidio, o l’oblio nell’illusione.
È per questa “religione dell’illusione”, l’unica cosa a cui si può aggrappare l’uomo per sfuggire la disperazione di una vita troppo stretta, che si dedica con fervore alla poesia, alla bellezza: le maggiori delle illusioni. Questo spiega il gran numero di suoi scritti tutti concentrati in un brevissimo periodo di tempo; infatti, dai trentacinque anni in poi, scriverà solo testi critici e nulla di propriamente suo. Leggiamo questo brano tratto dalle Ultime lettere di Jacopo Ortis, il primo romanzo della nostra letteratura, in cui si scorge la ferita ancora sanguinante provocata dalla delusione politica per Napoleone; il protagonista sa che ora è sulla lista nera perché ha combattuto contro gli austriaci, e scrive:

Il mio nome è nella lista di proscrizione, lo so: ma vuoi tu c’io per salvarmi da chi m’opprime mi commetta a chi mi ha tradito?

In questa suo nobile desiderio di preservare almeno la sua dignità umana, scorgiamo i tratti di Alfieri:

Poiché ho disperato della mia patria e di me, aspetto tranquillamente la prigione e la morte. Il mio cadavere almeno non cadrà fra braccia straniere; il mio nome sarà sommessamente compianto da’ pochi uomini buoni, compagni delle nostre miserie; le mie ossa poseranno sulla terra de’ miei padri.

Oltre al fatto che in queste righe troviamo per la prima volta nella letteratura italiana il tema della sepoltura in patria, ci accorgiamo evidentemente della somiglianza con l’affermazione esasperata dell’io di Alfieri. Il suicidio è legittimato, per affermare la libertà individuale, e perché è indice di un’anima grande, che si ribella all’oppressione, ma qui il tono poetico assume una nuova amarezza, che Alfieri non conosceva, una triste rassegnazione che non avevamo trovato prima. L’unico barlume di speranza, si vede nell’introduzione del libro: Foscolo struttura il romanzo come una raccolta di lettere, di Jacopo Ortis, appunto, che il suo amico Lorenzo Alderani, dopo il suicidio di lui, ha voluto riunire e presentare ad un pubblico di lettori, affinché desse la sua “compassione al giovane infelice dal quale forse potrai trarre esempio e conforto”. Non va tutto perduto: la letteratura conserva il ruolo di educatrice e di conforto per i poveri, miseri uomini, che si dilettano con questo, e si consolano perché non possono cambiare le cose, non possono modificare la realtà che li circonda.
Ortis è ovviamente un alterego di Foscolo, che, come Alfieri, parla di sé in tutti i modi e le forme possibili; ogni suo personaggio è specchio di se stesso, anche nel riprendere la figura di Cristo, in cui si immedesima in quanto Gesù fu il «giusto sofferente» per antonomasia. Ma non conobbe invece Dio, né lo Spirito Santo; si fermò alla constatazione di un Dio morto anche se puro, ucciso dalla cecità dell’uomo, dalla sua malvagità. Non conosce invece la sua natura trascendentale nelle altre figure della Trinità. Questa riduzione sensista della realtà schiaccia l’uomo, che è fatto anche per altro.
L’ossessione per la tematica della morte spiega anche la composizione de I sepolcri: un’opera con cui l’autore si oppone fortemente all’emendamento di Pamplot del 1806 per cui non avrebbero potuto seppellire i morti in città. Questo testo si gioca nel fondere la ripresa della classicità con elementi nuovi, come la poesia cimiteriale inglese (canti di Ostia). Ecco cosa aveva poetato l’autore latino Orazio secoli e secoli prima:

Exegi monumentum aere perennius
regalique situ pyramidum altius,
quod non imber edax, non Aquilo inpotens
possit diruere aut innumerabilis
annorum series et fuga temporum.
Non omnis moriar multaque pars mei
vitabit Libitinam; usque ego postera
crescam laude recens, dum Capitolium
scandet cum tacita virgine pontifex.
Dicar, qua violens obstrepit Aufidus
et qua pauper aquae Daunus agrestium
regnavit populorum, ex humili potens
princeps Aeolium carmen ad Italos
deduxisse modos. Sume superbiam
quaesitam meritis et mihi Delphica
lauro cinge volens, Melpomene, comam.
Ho innalzato un oggetto che serve a ricordare, opera memorabile più duratura del bronzo e più alta delle piramidi sede di re che non potrebbero distruggere la pioggia divoratrice né l’Aquilone sfrenato o l’innumerevole serie di anni e la fuga del tempo.
Non morirò tutto, e molta parte di me eviterà Libitina. Io crescerò rinnovandomi continuamente nell’elogio del posteri finché il pontefice salirà al Campidoglio con la vergine silenziosa. Si dirà, dove strepita violento l’Aufido, e dove Dauno, povero d’acqua, regnò sui popoli agresti, da umile divenuto potente, che io per primo ho trasferito la poesia eolica alla metrica italica. Accogli la superba richiesta dai tuoi meriti e cingimi propizia i capelli con l’alloro Delfico, o Mepomene.

Tutta la lotta che genera questo scritto di Foscolo parte proprio dalla convinzione che l’uomo, sebbene morto “Non omnis moriar”, non morirà tutto quanto. Ma la tomba è proprio quel monumento che, sebbene conservi cenere e ossa, fa vivere l’uomo nella memoria dei vivi. Foscolo è cosciente che la tomba sia un contenitore di terra, ma sa altrettanto bene che il cuore non può arrendersi a questo, e deve riconoscere che l’affetto per una persona dura anche dopo la morte. Per questo vale costruire tombe e seppellire cadaveri che ormai non possono più dire nulla alla vita.
Come risulta allora contrastante il sonetto che compone per la morte di suo fratello, il suicida, Giovanni, in cui invoca la morte come quiete, pace sperata e mai raggiunta in vita!

È interessante notare il suo modo innovativo di amalgamare passato e presente in qualcosa di completamente nuovo, come è evidente anche ne Le Grazie, un inno dedicato alla celebrazione di queste divinità, ma che nasconde nel racconto mitologico una riflessione più profonda: le tre Grazie tornano infatti tra gli uomini che, attratti dalla bellezza, avevano cercato di impossessarsene, protette da un velo. Esso è trasparente, e lascia intravvedere all’uomo la loro nuda bellezza, ma nello stesso tempo protegge e copre, illude gli uomini di poterle ammirare, ma ciò che vedono è solamente il loro velo. Ciò che si vede è quindi l’ombra di qualcosa che non si scorge, l’indizio di un mistero di cui però non abbiamo esperienza, e quindi di cui non si ha la certezza che sia reale; permane il dubbio che dietro al velo non ci sia nulla. 

IL '700 ITALIANO E L'ILLUMINISMO - Tema

IL ‘700 ITALIANO E L’ILLUMINISMO

A legare questo nuovo secolo della letteratura a quello precedente è l’esperienza dell’Accademia. Nello stesso tempo, pur mantenendo la stessa forma, quella appunto di un circolo di intellettuali che condividono un interesse comune, i contenuti si propongono come innovativi rispetto alla cultura della meraviglia che ha caratterizzato il Barocco. La nuova Accademia dell’Arcadia, infatti, compie un drastico salto: dalla ricerca dell’eccezione passa alla ricerca quasi ossessiva (togliendo pure il “quasi”) della regola. Già il nome ne delinea il profilo: nella poesia greca, soprattutto, e latina questa regione peloponnesiaca rappresentava l’emblema della vita pastorale, che qui viene però idealizzata. Un esasperato classicismo, l’abbandono dell’esametro a favore dei metri latini e greci, i paesaggi inverosimili, la descrizione di un’aurea felice, spensierata e…vuota, superficiale. Il risultato è questo:

Sede alle Grazie, nido agli Amori,
conca di perle, bocca onde stillano
dolcezze e spirano soavi odori,

Amor composeti quel tumidetto
Vivace labbro sotto al bellissimo,
gentil, sensibile naso perfetto,

e disse a Venere: - Per sì bel labbro
prendo il modello dell’arco proprio;
sovra poi spargovi divin cinabro,

ove rosseggino d’almi diletti
fiamme che accendono in petto nobile
irresistibile desio d’affetti;

già dalla fulgida vaga tua stella,
felice nascita sortì l’altr’alma,
per cui riserbasi bocca s’ bella;

e per reciproca maggior fortuna,
dono rarissimo conosceranno
ambe ogni pregio che in lor s’aduna.

Il risultato è, cioè, dilettarsi di una poesia che ha come tema il nulla. Più mi impegno, meno riesco a trovare in questa poesia, Sede alle Grazie, nido agli Amori, che ho voluto citare per intero per rendere evidente ciò che dico.
Questo secolo è, però, pieno di contrasti, perché di fianco a questa brutta copia di un’antichità vuota, si sviluppa qualcosa di diametralmente opposto: sono gli anni in cui fiorisce in Europa l’Illuminismo.
Questo è il grande secolo delle rivoluzioni, dell’inizio della modernità, ma tutto questo non tocca quasi l’Italia; il fulcro di questo movimento che trascina il mondo verso qualcosa di radicalmente diverso è in Francia, che conoscerà la nascita di filosofi quali Rosseau, lo stesso Robespierre che ha preso in mano la rivoluzione Francese portandola ad un principio di dittatura e di totalitarismo, Voltaire, e potrei citarne molti altri. Nella penisola troviamo un Illuminismo avente gli stessi principi, ma attuati in modalità differenti, e molto meno diffuso che nella nazione francese. Questo movimento tocca Napoli, esperienza che però si può dire esclusiva di un solo autore, Gianbattista Vico, e soprattutto Milano, che esce da una dimensione regionale per una internazionale. L’inizio che ha scatenato questo movimento è stata l’esigenza del primato della ragione umana rispetto a tutti gli altri elementi della realtà, che è l’unico elemento su cui si può fondare una certezza per l’uomo in questo mondo pieno di inganni. Tutto ciò che non è ragionevole e che soprattutto impedisce alla ragione dell’uomo fioritura e sviluppo, deve essere eliminato; il principale bersaglio è la fede religiosa, che viene considerata come peggior nemico dell’uomo, perché irragionevole. La religione diventa quindi l’opposto del suo proponimento: un ostacolo all’uomo, perché identificata con una forma di potere dittatoriale, che sminuisce la capacità di ragionare dell’uomo, quindi lo abbassa ad uno stato di sottomissione. Ecco che l’uomo concepisce la propria dipendenza ad un dio come il De rerum natura di Lucrezio: tutta l’umanità schiacciata sotto il peso di una gigantesca credenza illusoria ed irragionevole; a riprendere questa idea è Emmanuel Kant, che riassume ciò nel suo scritto Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo?

L’Illuminismo è l’uscita dell’uomo da uno stato di minorità il quale è da imputare a lui stesso. Minorità è l’incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stessi è questa minorità se la causa di essa non dipende da difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di servirsi del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza – è dunque il motto dell’Illuminismo.

In Italia questo pensiero penetra con toni smorzati a causa delle diverse circostanze vigenti nella penisola: la mancanza di uno Stato nazionale, la presenza radicata della Chiesa con lo Stato pontificio e di una tradizione storica ben consapevole. Il movimento, per quanto riguarda alla letteratura, viene però accolto e incanalato in una tendenza alla praticità e all’apertura verso un pubblico più ampio che la cerchia degli intellettuali. Tutto il mondo illuminista infatti si interroga sul compito dell’intellettuale, dell’illuminato dalla verità della ragione: infatti, non essendo lui un minorato, per riprendere il passo di Kant, ha il dovere di illuminare tutti gli altri uomini. L’Illuminismo si pone quindi in una dimensione sociale, non resta un fatto relegato ad un circolo come fu l’Accademia dell’Arcadia.
Ciò che penetra dell’Illuminismo in Italia è proprio questo aspetto sociale: il desiderio di aprire la cultura a tutto il mondo, ovviamente conservando una tradizione. Possiamo infatti notare negli scritti di Gianbattista Vico richiami alla religione cristiana, riferimenti alla Bibbia; nel suo Scienza nuova, mentre descrive la nascita del senso religioso nei primi uomini, riflette sul ruolo dei “poeti”:

[…] dalla loro idea criavan cose, ma con infinita differenza però dal criare che fa Iddio: perocché nel suo purissimo intendimento, conosce e, conoscendole, cria le cose; essi, per la loro robusta ignoranza, il facevano in forza d’una corpolentissima fantasia […], onde furono detti «poeti», che lo stesso in greco suona «criatori». Che sono li tre lavori che deve fare la poesia grande, cioè di ritruovare favole sublimi confacenti all’intendimento popolaresco, e che perturbi all’eccesso, per conseguir il fine, che ella si ha proposto, d’insegnar il volgo a virtuosamente operare, com’essi l’insegnarono a se medesimi.

L’illuminato è tale perché maestro di se stesso, della propria ragione sviluppata, e maestro per gli altri attraverso la poesia. Si può dire un proponimento simile a quello dei grandi tragediografi greci, o a quello di Tasso, con l’abissale differenza che per Vico l’uomo potrebbe “illuminarsi” da sé.
Quindi, se il volgo ignorante non è più considerato un ammasso di “pidocchi”, come avrebbe detto Machiavelli, se viene rivalorizzata la potenzialità della ragione, che è comune a tutti gli uomini, anche i contadini, si può capire la preoccupazione di Cesare Beccaria volta a preservare una società che sia positiva per ciascun individuo. Il letterato lombardo, infatti, riflette su un particolare problema della società a lui contemporanea: quella della pena di morte per i delinquenti e criminali, che citerò come esempio di cambio di mentalità, di slancio verso una società sempre migliore, sempre più illuminata. Beccaria espone, infatti, nel suo Dei delitti e delle pene, il suo pensiero per cui una società realmente progredita deve essere capace di rieducare l’individuo; la società, che deve essere illuminata, ha quindi la stessa funzione del poeta-maestro descritta da Vico. È quindi inutile la pena di morte per i malfattori, perché uccidendoli si toglie loro la possibilità di cambiare, la possibilità di diventare uomini illuminati, di diventare a loro volta maestri. La società deve essere quindi in grado di correggere gli sbagli dei suoi figli senza crudeltà, ma con pazienza; solo così i può dare l’occasione di rifiorire a ciascuno.
Il desiderio di praticità di Beccaria e di aprire gli orizzonti della cultura a tutti come Vico, è sviluppato in modalità totalmente innovative e più accorato dai fratelli Pietro e Alessandro Verri: i fondatori della prima rivista giornalistica italiana, il Caffè. Stufi di una letteratura votata alla sola gloria personale, contrari a un’inefficace classicismo che si rivela incomprensibile per la maggior parte delle persone, convinti della necessità di un’innovazione totale nella letteratura italiana, propongono qualcosa di mai visto, un esperimento vivace e nuovo per la storia. Vi ripropongo l’articolo di apertura del giornale, con il quale questo attivo gruppo di intellettuali milanesi presenta se stesso:

Cos’è questo "Caffè"? È un foglio di stampa che si pubblicherà ogni dieci giorniCosa conterrà questo foglio di stampa? Cose varie, cose disparatissime, cose inedite, cose fatte da diversi autori, cose tutte dirette alla pubblica utilità. Va bene: ma con quale stile saranno eglino scritti questi fogli? Con ogni stile, che non annoiE sin a quando fate voi conto di continuare quest’opera? Insin a tanto che avranno spaccio. Se il pubblico si determina a leggerli, noi continueremo per un anno, e per più ancora, e in fine d’ogni anno dei trentasei fogli se ne farà un tomo di mole discreta: se poi il pubblico non li legge, la nostra fatica sarebbe inutile, perciò ci fermeremo anche al quarto, anche al terzo foglio di stampa. Qual fine vi ha fatto nascere un tal progetto? Il fine d’una aggradevole occupazione per noi, il fine di far quel bene, che possiamo alla nostra patria, il fine di spargere delle utili cognizioni fra i nostri cittadini, divertendoli, come già altrove fecero e Steele, e Swift, e Addison, e Pope, ed altri. Ma perché chiamate questi fogli "Il Caffè"? Ve lo dirò; ma andiamo a capo.
Un Greco originario di Citera, isoletta riposta fra la Morea e Candia, mal soffrendo l’avvilimento e la schiavitù, in cui i Greci tutti vengon tenuti dacché gli Ottomani hanno conquistata quella contrada, e conservando un animo antico malgrado l’educazione e gli esempi, son già tre anni che si risolvette d’abbandonare il suo paese: egli girò per diverse città commercianti, da noi dette le scale del Levante; egli vide le coste del Mar Rosso, e molto si trattenne in Mocha, dove cambiò parte delle sue merci in caffè del più squisito che dare si possa al mondo; indi prese il partito di stabilirsi in Italia, e da Livorno sen venne in Milano, dove son già tre mesi che ha aperta una bottega addobbata con ricchezza ed eleganza somma. In essa bottega primieramente si beve un caffè che merita il nome veramente di caffè; caffè vero verissimo di Levante, e profumato col legno d’aloe, che chiunque lo prova, quand’anche fosse l’uomo il più grave, l’uomo il più plombeo della terra bisogna che per necessità si risvegli, e almeno per una mezz'ora diventi uomo ragionevole. In essa bottega vi sono comodi sedili, vi si respira un'aria sempre tepida e profumata che consola: la notte è illuminata, cosicché brilla in ogni parte l’iride negli specchi e ne’ cristalli sospesi intorno le pareti e in mezzo alla bottega; in essa bottega chi vuol leggere trova sempre i fogli di novelle politiche, e quei di Colonia, e quei di Sciaffusa, e quei di Lugano, e vari altri; in essa bottega chi vuol leggere trova per suo uso e il Giornale Enciclopedico, e l’Estratto della letteratura Europea, e simili buone raccolte di novelle interessanti, le quali fanno che gli uomini che in prima erano romani, fiorentini, genovesi, o lombardi, ora sieno tutti presso a poco europei; in essa bottega v’è di più un buon atlante, che decide le questioni che nascono nelle nuove politiche; in essa bottega per fine si radunano alcuni uomini, altri ragionevoli, altri irragionevoli, si discorre, si parla, si scherza, si sta sul serio; ed io, che per naturale inclinazione parlo poco, mi sono compiaciuto di registrare tutte le scene interessanti che vi vedo accadere, e tutt’i discorsi che vi ascolto degni da registrarsi; e siccome mi trovo d’averne già messi in ordine vari, così li do alle stampe col titolo Il Caffè, poiché appunto son nati in una bottega di caffè.


Il linguaggio cambia completamente: niente più grecismi, ma domina il parlato, domande dirette al lettore, narratore in prima persona, ironia, leggerezza e assoluta chiarezza. Una chiarezza che invita a farsi incontrare dalla gente. È uno stile nuovo volto alla comprensione immediata, non dedito alla bellezza estetica, formale del classicismo. La bellezza sta invece nella semplicità, nella limpidezza, nel rapporto diretto tra autore e lettore che non è più filtrato da allegorie o dall’ostacolo di una lingua forbita o di riferimenti colti. Si abbandona completamente il complicato periodo architettonico per una schietta presentazione dello scritto che segue l’ordine del pensiero, tecnica presa in prestito dai francesi. Ripudiando una letteratura frutto di un artificio, e mettendosi quindi in contrasto con l’Accademia dell’Arcadia, propongono il valore dell’efficacia, di una letteratura che apra alla realtà, ai suoi problemi, alle sue necessità, e che richiede il contributo di tutti. Purtroppo questo vivace esperimento dura ben poco: dopo un anno e mezzo si smette la pubblicazione di nuove copie.
Carlo Goldini è un altro portatore di innovazione in Italia, nell’ambito però del mondo teatrale. La novità che porta è essenzialmente quella di considerare il teatro specchio della vita, palcoscenico del mondo, con cui l’azione teatrale si ritrova ad essere in rapporto biunivoco. Ed ecco che gli spettatori italiani si vedono catapultare su un palco pubblico la loro vita quotidiana, e non il grande dramma di eroi lontani. Ricchi, poveri, bambini, vecchi bisbetici, vecchi saggi, donne spendaccione, uomini innamorati, uomini d’affari, ragazze sognatrici, domestiche furbe, domestici più pragmatici dei loro padroni, amori nascosti, amiche ingenue, adulti bambini e molto altro. In questo senso l’azione teatrale ha la stessa funzione della letteratura: quella educativa, perché mostra a tutti (e qui si nota l’apertura del messaggio al mondo intero) la realtà in cui loro stessi sono immersi, invitando quindi a giudicarla e a correggersi.
Come ho detto precedentemente, questa influenza dell’Illuminismo è un fatto relegato, si può dire, alla sola realtà milanese, mentre nel settecento italiano prevale in gran istanza la ripresa della tradizione, con più o meno coscienza. Un esempio di ripresa cosciente è di sicuro Giuseppe Parini, letterato brianzolo che proviene da una famiglia povera. È proprio questa sua origine che gli conferisce quella tendenza alla praticità, all’utilità che caratterizza i suoi maggiori scritti: Il giorno, che è un invito ad aprire gli occhi alla realtà. Profondamente convinto che sia compito dei nobili il guidare la società, idea non molto illuminista, non ne nasconde però l’inettitudine, che considera generata da un loro decadimento morale. Con questo testo, fa uso della satira per rendere i nobili consapevoli che la vita sregolata che conducono non è coincidente con la grande responsabilità che si devono assumere per nascita, quella di guidare la società verso il bene. Sbatte allora in faccia a questi “bambini mai cresciuti e viziati” la loro stessa vita, dal mattino fino al tramonto, che risulta amaramente vuota, nonostante tutte le facoltà economiche, nel paragone con la vita di un umile contadino, che sarà pure povera ma ricca. Il mezzo per descrivere ciò rimane la ripresa e rielaborazione della cultura classica, elemento con cui si distacca dall’esperienza del Caffè.

I Greci vedevano nell’affermazione di sé, nella estrema valorizzazione della bellezza e grandezza insita nell’uomo l’unica via d’uscita per essere migliori dei loro dei, quegli stessi dei che sadicamente, si divertono a prendersi gioco del destino dell’uomo, infliggendo mali e dolori, godendo delle sue colpe, guardando solo al proprio interesse (non considerando però il pensiero di Eschilo, per cui la colpa è nell’uomo); l’umanità dei Greci è quindi volta all’esaltazione di sé per non soccombere completamente davanti al Caso tiranno. Nella citazione precedente del passo di Kant abbiamo visto lo stesso concetto dei Greci rielaborato alla luce degli anni che lo separano da Sofocle ed Euripide: affermava infatti l’esaltazione dell’individuo attraverso la libertà della sua ragione, intesa come assenza di legami opprimenti e alienanti come la religione e l’intera società. Vittorio Alfieri è la sintesi di questi due aspetti dello stesso pensiero. In ogni parola scritta da lui trapela evidente il forte desiderio di affermare se stesso, di dire “io”: un io potente, deciso ad abbattere tutti gli ostacoli che lo fermino, come dice Kant. Di sicuro non si può dire di Alfieri che era un minorato.
Tutta la sua vita è dedicata a ribellarsi davanti ad ogni “tiranno” che incontrasse, come lo chiama lui nel trattato Della tirannide, e, per fare ciò, ad affermare se stesso; lo testimonia la scelta di scrivere un testo autobiografico, la Vita, e la predilezione per le tragedie. Il destino ritorna avverso, la Fortuna schiaccia l’uomo che non vede esaurirsi i suoi desideri, i suoi progetti, le sue idee. Riprendendo dai Greci il loro spirito saldo e caratterizzato da un immenso sforzo umano, riprende anche le loro forme: si spiega quindi la grande produzione di tragedie con tema mitologico o ebraico, la quasi trasposizione della lingua classica nelle forme, nella metrica, nei riferimenti, nella mentalità e nei contenuti. Ecco che, nella tragedia Saul, si preso in considerazione di nuovo il suicidio come atto massimo di un’anima libera e grande, come succedeva per gli antichi, che preferivano morire che subire una vita spoglia che sminuisse la loro grandezza:

A me il morir da giusto
Niun re può torre: onde il morir mi fia
Dolce non men, che glorioso.

E la stessa decisione viene presa da Saul re, tiranno pure lui, poco prima che i Filistei invasori lo uccidessero, si trafigge il petto:

Eccoti solo, o re; non un ti resta
Dei tanti amici, o servitori tuoi. – Sei paga,
d’Inesorabil Dio terribil ira? –
ma tu, mi resti, o brando: all’ultim’uopo,
fido ministro, or vieni. – Ecco già gli urli
dell’insolente vincitor: sul ciglio
già lor fiaccole ardenti balenarmi
veggio, e le spade a mille… - Empia Filiste,
me troverai, ma almen da re, qui…
morto.-

In questa esasperata ricerca della gloria personale, l’uomo si ritrova solo, perché tutto ciò che è diverso da sé l’ha sempre considerato nemico. Da solo, con la sola cosa che può fare: suicidarsi per preservare almeno la propria dignità, per non farsi sopprimere neanche dalla morte, dall’umiliazione di una morte inflitta, imposta da qualcun altro. Questa è la fine dell’uomo autarchico.
Sorge però un problema nella concezione di Alfieri, nel suo sistema di valori: nel momento in cui si afferma la propria gloria, il proprio io, si diventa tiranno per gli altri; si diventa quel tiranno per cui lui ha teorizzato il cosiddetto “tirannicidio”, si diventa ciò che lui ha sempre voluto eliminare, combattere contrastare. Lui stesso forse diventò così. Grande aporia che l’autore ha deciso di ignorare, se pure ne avesse avuto la coscienza.
È bene notare, per finire, un’influenza in Alfieri della cultura che lo circonda, perché non si pensi che abbia semplicemente copiato qualcosa che già c’era in passato, oltre all’accostamento già fatto con Kant. Ha infatti, come tutti gli illuministi, il desiderio di educare gli altri a vedere la verità, la tendenza ad esternare il suo moto di vivere per coinvolgere, per risvegliare gli altri; riflette infatti sul ruolo della letteratura in questi termini, il cui compito è per lui educare il sentimento dell’uomo, educarlo ad affermare se stesso, ad accrescere la sua ragione e a coltivarla libera da pregiudizi, da schemi, da regole.

domenica 14 settembre 2014

PURGATORIO - Divina Commedia - riassunto di tutti i canti

Canti
DESCRIZIONE
-      Spiaggia del purgatorio
» invocazione alle Muse; incontro con Catone; purificazione di Dante
-      Incontri » il custode del purgatorio, Catone Uticense
-      Canti » no
-      Similitudini » Dante e Virgilio vagano sulla spiaggia solitaria, come due pellegrini che camminano
                            sulla strada che avevano perduto, e non si sentono a casa finché non avranno
                            raggiunto la meta (vv.118-120)
-      Spiaggia del purgatorio
» sbarco delle nuove anime traghettate da un angelo; gli spiriti chiedono a Dante e Virgilio la strada;
   stupore al riconoscimento che Dante è vivo; Casella canta la canzone di Dante Amor che nella
   mente mi ragiona; rimprovero di Catone e seguente affrettarsi delle anime e dei due poeti
-      Incontri » l’amico Casella, trovatore che musicava nella vita terrena le canzoni degli amici poeti
-      Canti » primo versetto del salmo 113, il salmo dell’esodo del popolo ebreo dalla schiavitù
                 (In exitu Israel de Aegypto)
-      Antipurgatorio (spiriti pentiti all’ultima ora): gli scomunicati
» Dante si accorge della propria ombra; ammonimento di Virgilio a non pretendere di capire le
   ragioni di ogni fenomeno perché la mente umana è limitata; incontro con scomunicati e Manfredi
   che gli chiede di dire a sua figlia che lo ha incontrato nel purgatorio; racconto della sua morte
-      Incontri » Manfredi, figlio dell’Imperatore Federico II
-      Canti » no
-      Antipurgatorio (spiriti pentitisi all’ultima ora): i pigri
» comincia l’ascesa; sosta a riposare; coordinate astronomiche di Virgilio e spiega che salendo il
   purgatorio la fatica diminuisce; anime dei pigri che hanno rimandato il pentimento fino all’ultimo;
   Belacqua spiega che prima di accedere al purgatorio essi devono trascorrere un numero di anni
   pari alla propria vita, se non soccorsa da preghiere; Virgilio incita a riprendere il cammino
-      Incontri » Belacqua, un artigiano fiorentino
-      Canti » no  
-      Antipurgatorio (spiriti pentitisi all’ultima ora): morti di morte violenta
» i pigri notano l’ombra di Dante; Virgilio lo ammonisce di indugiare sulle loro esclamazioni; si
   avvicina un gruppo di anime; Virgilio spiega che Dante è vivo ed il viaggio è voluto da Dio;
   rivelano di essere morti di morte violenta; Dante non riconosce nessuno ma si offre di aiutarle;
   Jacopo del Cassero ricorda la sua morte e chiede di ricordarlo ad amici e parenti di Fano;
   Buonconte da Montefeltro racconta la sua morte nella battaglia di Campaldino su richiesta di
   Dante; Pia dei Tolomei chiede di ricordarsi di lei dopo che, tornato dal viaggio, si sarà riposato
-      Incontri » Jacopo del Cassero, di una illustre famiglia guelfa di Fano
                  » Buonconte da Montefeltro, figlio del conte Guido, condottiero ghibellino incontrato da
                     Dante nel canto XXVII dell’Inferno tra i consiglieri fraudolenti
                  » Pia dei Tolomei, personaggio storicamente oscuro; fu uccisa dal marito
-      Canti » no
-      Antipurgatorio (spiriti pentitisi all’ultima ora): morti di morte violenta 2
» i morti per atti violenti chiedono di pregare per loro a Dante; Dante chiede a Virgilio perché
   nell’Eneide aveva scritto che le preghiere non possono mutare il volere divino, Virgilio spiega che lo
   disse prima della venuta di Cristo e rimanda a Beatrice il compito di rispondere; Virgilio chiede la
   strada ad uno spirito (Sordello) appartato; abbraccio tra i due concittadini mantovani; invettiva di
   Dante contro l’Italia, lotte intestine nelle città, negligenza dell’Imperatore, Firenze
-      Incontri » Sordello, trovatore mantovano
-      Canti » no
-      Antipurgatorio (spiriti pentitisi all’ultima ora): i negligenti
» Sordello si commuove quando Virgilio gli rivela il suo nome; gli chiede la strada e Sordello si offre
   di accompagnarli; cala la notte e il trovatore propone di passare la notte con altre anime (nel
   purgatorio non si può procedere di notte); descrizione della valletta ed elenco di Sordello di alcuni re
   e principi dolenti per l’inettitudine dei loro discendenti
-      Incontri » no
-      Canti » le anime nella valletta dei principi cantano il Salve Regina, canto dell’esilio e di sospiro della
                 patria dedicata a Maria, recitata nell’ora di Compieta
-      Antipurgatorio (spiriti pentitisi all’ultima ora): i negligenti 2
» il sole tramonta e le anime intonano la Compieta; due angeli verdi con spade infuocate scendono dal
   cielo; Sordello spiega che devono difendere la valle dal serpente della tentazione; Nino Visconti
   raccomanda Dante di dire alla figlia Giovannadi pregare per lui; Dante ammira tre stelle luminose,
   simbolo delle virtù teologali; un angelo mette in fuga un serpente; Corrado Malaspina gli chiede se
        ha notizie della sua patria; Dante risponde che la Val di Magna è nota come terra pacifica per la
        virtù della sua famiglia; Nino predice il suo esilio: avrà presto diretta conferma di questa opinione
-      Incontri » Nino Visconti (Ugolino Visconti), amico di Dante, pisano
                  » Corrado Malaspina, nobile famiglia che regge la Val di Magna
-      Canti » inno dell’ora della Compieta, Te lucis ante, per chiedere a Dio protezione contro le tentazioni
                 notturne (le prime parole ne sono il titolo «Prima della fine del giorno noi t’invochiamo…»)
-      Alla porta del purgatorio
» Dante si addormenta e sogna di essere trasportato da un’aquila fino al cielo del fuoco; si sveglia:
   sono davanti alla porta del purgatorio; Virgilio racconta che Santa Lucia all’alba è scesa dal cielo e
   lo ha trasportato lassù; l’angelo guardiano li fa avanzare solo dopo aver menzionato Lucia; Dante
   compie il rito del penitente e chiede all’angelo di lasciarli entrare; con la spada l’angelo incide sulla
   fronte di Dante sette P, simbolo dei peccati, che laverà nel purgatorio (una ad ogni cornice); apre la
   porta con le chiavi di San Pietro, una dorata e una d’argento; l’angelo avverte che nella salita non si
   potranno voltare indietro; odono il canto del Te Deum.
-      Incontri » angelo guardiano, seduto su un trono posto sul terzo gradino
-      Canti » Te Deum, inno solenne di ringraziamento a Dio, usato nelle feste maggiori
10°
-    Prima cornice: i superbi
» dopo un tratto di cammino si fermano a riposare; descrizione degli esempi di umiltà scolpiti da Dio
   in bassorilievi nel marmo sulla parete: sembrano vivi; il primo raffigura l’annunciazione; il secondo
   il re David che danza davanti all’arca santa dell’antico testamento, circondata dalla folla, con la
   moglie che si vergogna di lui; il terzo l’imperatore Traiano col suo esercito, che dialoga con una
   vedova; si stanno avvicinando delle anime sotto grandi massi a cui chiedere informazioni
-    Incontri » no
-    Canti » no
11°
-    Prima cornice: i superbi 2
» incontro con i superbi che cantano il Pater Noster; Virgilio chiede la strada meno ripida; Omberto Aldobrandeschi risponde di andare a destra e confessa la sua superbia in vita (arroganza gentilizia); Dante è riconosciuto da Oderisi da Gubbio (orgoglio dell’artista) che denuncia la caducità della gloria umana portando ad esempi Cimabue superato da Giotto e Guido Guinizzelli superato da Guido Cavalcanti, un terzo poeta li supererà entrambi; Oderisi presenta Provenzan Salvani, cui fu condonata l’attesa nell’Antipurgatorio per un suo atto d’umiltà (presunzione del politico) » 3 tipi di superbia
-    Incontri » Omberto Aldobrandeschi, signore toscano feudatario della Maremma
                 » Oderisi da Gubbio, il più famoso miniatore al tempo di Dante, nato a Gubbio
                 » Provenzan Salvani, grande signore ghibellino di Siena
-    Canti » Pater noster, parafrasata per adattarla all’animo dei superbi (che sia lodato il nome di Dio, non
                il nostro, che sia fatta la Tua volontà, non la nostra), con cui le anime pregano anche per i vivi
12°
-    Prima cornice: i superbi 3
» ora Virgilio invita Dante a proseguire da solo e osservare il pavimento; descrizione dei bassorilievi
   che illustrano esempi di superbia punita, alternando biblici e mitologici, 13 in tutto, e raggruppabili
1.      ribelli alla divinità, che vollero essere come Dio, non tollerando la subordinazione
» Lucifero (precipitato a terra da Dio), Briareo e gli altri giganti (fulminati dagli dei per aver
   tentato la scalata dell’Olimpo), Nembròt (perdita del linguaggio: innalzò la torre di Babele)
2.      vanagloriosi che si sono fatti uguali o superiori a Dio (puniti da se stessi)
» Niobe (impetrì per il dolore), Saul (suicida), Aracne (suicida), Roboamo (fuggì umiliato)
3.      coloro che furono portati dalla superbia ad una bramosia sfrenata di dominio e possesso, causando mali per gli uomini da cui furono puniti
      » Erifile (per avere la collana di Venere mandò a morte il marito); Sennacherib, Ciro, Oloferne (tre
         orgogliosi condottieri)
» Virgilio distoglie Dante dall’osservare il pavimento: c’è un angelo che li conduce ai gradini che
   portano alla prossima cornice; batte l’ala sulla fronte di dante cancellando una P
-    Incontri » angelo guardiano della successiva cornice
-    Canti » no
13°
-      Seconda cornice: gli invidiosi
» Virgilio prega il sole che gli indichi la strada; dopo un miglio, sentono delle voci incorporee che
   pronunciano esempi d’amore, due tratti dal Vangelo e uno dai miti
1.      «non hanno più vino», aiuto gratuito, non richiesto da Maria durante le nozze di Cana
2.      «sono io Oreste», frase con cui Pilade perde la sua vita per salvare quella dell’amico
3.      «amate da cui male aveste», parole di Gesù Cristo che esprimono il limite estremo dell’amore
» Virgilio spiega che è la cornice degli invidiosi: hanno ascoltato esempi della virtù opposta; le
   anime giungono in lontananza recitando le litanie dei santi; descrizione: sono come ciechi
   elemosinanti, con gli occhi cuciti; Dante chiede se c’è qualche italiano, ma un’anima risponde che
   l’unica loro patria è il cielo; poi la senese Sapia racconta la gioia provata per la sconfitta dei suoi
   concittadini nella battaglia del Colle, le preghiere per lei di un suo amico; Dante spiega che è vivo e
   che teme più di tutte la pena di superbia, offre il suo aiuto; gli chiede di pregare per lei e parlare bene
   di lei ai parenti; fa una battuta ironica sulla vanità dei senesi
-      Incontri » Sapia, gentildonna senese della famiglia dei Salvani, zia del Provenzano incontrato tra i
                     superbi, di cui godette la morte nella battaglia del Colle
-      Canti » litanie dei santi, che iniziano invocando Maria, poi gli angeli, poi i santi aggiungendo la
                 formula «ora pro nobis»; celebra la comunione dei beni dello spirito tra tutti i celesti
14°
-      Seconda cornice: gli invidiosi 2
» Dante risponde a due anime che si interrogavano sulla sua identità di esser nato lungo il fiume
   toscano; l’allusione all’Arno provoca un’invettiva politica contro i popoli toscani, poi predice che il
   nipote dell’altro spirito (Fulcieri da Calboli) porterà Firenze alla rovina; l’anima rivela essere Guido
   del Duca, il suo compagno è Rinieri da Calboli; prorompe poi in un’invettiva contro le famiglie
   romagnole elencandole; Dante e Virgilio proseguono quando li raggiunge una voce che riferisce
   esempi di invidia punita, uno biblico (Caino), uno mitologico (Aglauro)
-      Incontri » Guido del Duca, gentiluomo romagnolo, della famiglia degli Onesti
» Rinieri da Calboli, della potente famiglia guelfa di Forlì, i Paolucci
-      Canti » no
15°
-      Seconda cornice: gli invidiosi 3
» è l’ora del tramonto, un bagliore costringe Dante ad abbassare gli occhi: è l’angelo guardiano, che indica loro la scala per la cornice successiva e cancella una P dalla fronte di Dante; si sentono canti di esortazione alla misericordia; Dante chiede come sia possibile che il paradiso sia un bene che più si divide tra gli uomini più aumenta a differenza dei beni terreni (suscitata da Guido del Duca); Virgilio: dal desiderio dei beni terrestri nasce l’invidia, nell’aldilà l’amore si moltiplica, aumenta con i fruitori, ma sarà Beatrice ad esaurire l’argomento; alla terza cornice Dante è preso da un sonno estasiatico in cui ha tre visioni di esempi di mansuetudine, virtù opposta all’ira
1.      mite rimprovero di Maria quando ritrova Gesù nel tempio di Gerusalemme
2.      il rifiuto di vendicarsi per l’offesa fatta alla figlia opposto da Pisistrato alla moglie
3.      martirio di santo Stefano che, lapidato, prega Dio di perdonare i suoi uccisori
» continuano il loro percorso, e vengono avvolti lentamente da un fumo oscuro
-      Incontri » angelo guardiano della successiva cornice
-      Canti » canti di esortazione alla misericordia (Beati misericordes!, quinta delle beatitudini di Matteo)
16°
-      Terza cornice: gli iracondi
» il buio fumo costringe Dante ad appoggiarsi a Virgilio per proseguire; voci recitano l’«Agnello di
   Dio» e Virgilio presenta gli iracondi; un’anima apostrofa Dante, che non smette di camminare, e che
   spiega di essere vivo ed in viaggio per grazia divina; l’anima (Marco Lombardo), chiede di pregare
   per lui ed indica la via; Dante gli chiede qual è la causa del male che domina il mondo: risiede nella
   libertà dell’uomo o nell’influsso degli astri?; Marco: dal cielo proviene una prima inclinazione, ma
   l’uomo, dotato di ragione e di libertà, sceglie, perciò la responsabilità è dell’uomo; per correggere il
   peccato è necessaria una legge ed un’autorità che la faccia applicare, ma ora manca una guida, non
   essendo separati i poteri temporali da quelli spirituali, perché la Chiesa ha voluto anche quello
   temporale; denuncia del disordine in Lombardia; Marco si congeda perché ha scorto il bagliore
   dell’angelo tra il fumo
-      Incontri » Marco Lombardo, uomo di corte di cui sappiamo poco
-      Canti » Agnus Dei, frase evangelica ed inizio di un inno da cui prende il titolo
17°
-      Tra la terza e la quarta cornice
» Dante esce dalla terza cornice che il sole è prossimo al tramonto: gli appaiono tre visioni che mostrano esempi di ira punita (ira di Progne, la crocifissione di Aman, la sventurata fine della regina Amata). Poi si risveglia dall’estasi, colpito dalla luce dell’angelo, che indica la scala per salire alla quarta cornice; Dante cerca di scorgerne il volto, ma la luce è troppo forte, mentre Virgilio lo esorta a salire prima che si faccia buio. Si sente intonare da una voce il canto delle beatitudini; appaiono le prime stelle e Dante sente la stanchezza del viaggio, così, in cima alla scala, si fermano a riposare.
dante chiede quale sia la pena purgata nel prossimo girone, e gli viene risposto che è l’accidia, ovvero l’amore del bene esercitato con troppo scarso vigore. Per spiegargli meglio, Virgilio espone la natura del peccato umano, che si concretizza in due modalità: o perché l’amore viene diretto verso un oggetto sbagliato, o perché è esercitato con eccessivo o con scarso vigore verso oggetti buoni.
L’amore rivolto al male genera i peccati di superbia, invidia e ira (come si è visto nelle cornici inferiori); l’amore rivolto al bene, ma fiacco, genera l’accidia, se è invece eccessivo genera il peccato che Dante vedrà nelle cornici superiori, e che Virgilio non anticipa.
-      Incontri » angelo guardiano della cornice successiva
-      Canti » canto delle beatitudini («Beati / pacifici, che son sanz’ira mala!»)
18°
-      Quarta cornice: accidiosi
» Dante ha ancora dei dubbi riguardo al discorso di Virgilio, soprattutto sulla natura dell’amore, e gli chiede un chiarimento. Il maestro spiega come la disposizione ad amare sia innata nell’uomo, ma non ogni amore è di per sé positivo, perché la sua bontà dipende dall’oggetto che si ama e dalla modalità d’amare. Ma Dante ha un altro dubbio: se l’amore è insito nell’uomo e suscitato da fattori esterni ad esso, allora lo stesso amore è indipendente dalla volontà umana, quindi dalla responsabilità di ciascuno. Virgilio non vuole chiudere la questione con un discorso, soprattutto per un argomento così complesso, tanto che la ragione umana da sola non può esaurirlo; per questo non risponde, ma ricorda a Dante che l’uomo ha sempre la libertà di scegliere se rifiutare o accettare l’amore che gli oggetti esterni suscitano in lui; gli consiglia quindi di conservare la domanda fino all’incontro con Beatrice.
Sorge la luna, e Dante si addormenta, quando è risvegliato da un avvicinarsi di anime (gli accidiosi) che corrono in schiera: i primi due gridano esempi di sollecitudine.
Virgilio chiede loro la strada, e uno spirito li invita a seguirli nella corsa; è l’abate di San Zeno a Verona. Le due ultime anime gridano esempi di accidia punita, e la fila si esaurisce.
Dante, tornata la calma, si assopisce di nuovo e sogna.
-      Incontri » abate di san Zeno
-      Canti » no
19°
-      Dalla quarta alla quinta cornice: avari e prodighi (1)
» All’alba, Dante sogna una donna balbuziente, guercia, storpia, orribile; ma con lo sgurdo di Dante essa diventa lentamente bella, attraente, la sua voce melodiosa, ed intona un canto che affascina Dante. Improvvisamente appare una santa che invita Virgilio a reagire, ed egli le strappa le vesti e ne scopre il ventre putrido, mostrando a Dante la sua vera natura da sirena.
Dante si risveglia ai richiami del maestro, e riprendono la via, salendo la scala che l’angelo guardiano mostra loro, verso la quinta cornice. Dante rivela a Virgilio che continua a rimuginare su sogno appena fatto, e il maestro gli spiega che quella è l’allegoria dei beni terreni, punita nei tre gironi seguenti: che ora non ci pensi più.
Le anime di questa cornice sono schiacciate a terra con la faccia in giù; indicano loro la strada, ma Dante si ferma a chiedere ad una la sua identità e quale sia il loro peccato. L’anima si rivela quella di papa Adriano V, che fu avido dei beni terreni. Dante gli si inginocchia di fronte, ma l’anima lo rimprovera e lo fa rialzare, ricordandogli che nella vita eterna non esistono gerarchie, ma si è tutti servi di Dio.
-      Incontri » anima di papa Adriano V
-      Canti » no
20°
-      Quinta cornice: avari e prodighi (2)
» I due pellegrini riprendono il cammino, stringendosi alla parete della cornice per non calpestare le anime purganti che piangono mentre uno proclama esempi di povertà e liberalità.
Dante si avvicina allo spirito da cui provengono le invocazioni, chiedendogli chi sia e perché solo lui invochi. Esso risponde di essere l’origine della dinastia che ha provocato la piaga di questo peccato nella cristianità e nel mondo: Ugo Capeto, capostipite dei re di Francia. Gli racconta come dalle sue umili origini diventò poi un re potente. Si lamenta dell’avidità dei suoi successori, ricordando particolarmente Carlo I d’Angiò, che fece morire Corradino di Svevia e uccise san Tommaso. Poi Carlo di Valois, che avrebbe preso Firenze con l’inganno; e ancora Carlo II d’Angiò, che vendette sua figlia. Profetizza lo scontro con il papato e l’affronto che Filippo il Bello avrebbe arrecato a Bonifacio VIII in Anagni (il famoso schiaffo). Invoca quindi la giusta vendetta di Dio davanti a questi peccati.
Rivela poi a Dante che mentre di giorno invoca esempi buoni, di notte pronuncia esempi di avidità punita. Chiarisce poi che tutte le anime partecipano alle invocazioni, ma a voce più o meno bassa, per cui non era lui solo a pronunciarle.
Quindi Dante e Virgilio procedono, ma all’improvviso un terremoto scuote la montagna, e si sente risuonare potente il Gloria; quando termina il canto, cessano anche le scosse. Riprendono quindi il viaggio, anche se Dante arde ancora dal desiderio di sapere la ragione di quell’avvenimento, ma non osa chiedere spiegazioni.
-      Incontri » Ugo Capeto
-      Canti » Gloria
21°
-      Quinta cornice: avari e prodighi (3)
» dopo il terremoto, Dante e Virgilio. All’improvviso, arriva alle spalle un’anima che li saluta calorosamente. Virgilio spiega il motivo del viaggio di Dante e, avendo colto la curiosità dell’allievo, chiede spiegazioni del terremoto. Lo spirito spiega che la montagna del purgatorio è immune dai fenomeni atmosferici, quindi il terremoto è originato da cause soprannaturali, si verifica infatti ogni volta che un’anima purgante, compiuta la sua purificazione, si sente pronta per il suo ingresso in paradiso. Virgilio vuole quindi sapere l’identità del suo interlocutore: è Stazio, poeta latino, autore della Tebaide e dell’Achilleide, che rivela la sua ammirazione profonda per Virgilio, che è stato per lui modello di vita con la sua Eneide. Virgilio fa intendere quindi a Dante di tacere la sua identità, ma lascia trapelare un sorrisetto che fa insospettire lo spirito; alla sua domanda diretta, Virgilio lascia che Dante riveli chi sia. Stazio si inchina a baciare i piedi del poeta che fu per lui guida e salvezza.
-      Incontri » Stazio
-      Canti » no
22°
-      Tra la quinta e la sesta cornice
» I tre oltrepassano l’angelo d’ingresso della sesta cornice; nella salita Virgilio chiede a Stazio come ha potuto, lui così saggio, macchiarsi della colpa di avarizia. Stazio chiarisce che Virgilio è caduto in un equivoco: la sua colpa è stata in realtà quella opposta, la prodigalità, dalla quale si allontanò in tempo proprio grazie alla lettura di un passo virgiliano, che lo indusse a pentirsi. Quindi la stessa cornice accoglie peccatori di colpe opposte. Virgilio allora gli chiede come mai si convertì al cristianesimo, dato che dalle sue opere non risulta la fede cristiana. Lo spirito risponde che è stata la lettura di Virgilio ad indirizzarlo, come prima verso la poesia. La lettura della IV ecloga lo aveva avvicinato ai primi predicatori cristiani fino ad arrivare al battesimo, pur mantenendo nascosta la sua conversione. Chiede quindi a Virgilio se sa in quale luogo dell’Inferno si trovino i poeti latini.
Virgilio risponde che, insieme ad Omero, sono nel Limbo, dove sono accolti anche molti personaggi delle sue opere. Camminando, si trovano la strada sbarrata da un albero da frutto, bagnato da una sorgente limpida che sgorga dalla roccia del monte. Dalle fronde dell’albero esce una voce che proclama esempi di temperanza nel mangiare e nel bere.
-      Incontri » i pellegrini continuano il cammino con Stazio fino al canto 33°
-      Canti » no
23°
-      Sesta cornice: golosi (1)
» Virgilio riprende Dante che si era soffermato presso l’albero da cui proveniva la voce. Proseguendo, si sentono lamenti misti al canto di un salmo; sono le anime della sesta cornice, che passano di fianco a loro; Dante è colpito dalla loro magrezza. Improvvisamente un’anima riconosce Dante: è il suo amico Forese, e gli chiede come mai si trova qui, e chi siano i suoi accompagnatori. Prima di rispondere, Dante vuole sapere il motivo della loro magrezza. Allora lui risponde che l’odore dei frutti sugli alberi e l’acqua della sorgente suscitano in loro la fame e la sete nelle anime, che non possono soddisfare questo istinto. Questo le purifica dal loro peccato di gola che caratterizzò la loro vita. dante allora è curioso di sapere perché l’amico si trovi già in questa cornice quando sono passati solo cinque anni dalla sua morte; Forese racconta che è già lì grazie a sua moglie Nella, che prega per la sua salvezza, e lo ricorda e continua ad amarlo anche dopo la morte. Lei è diversa dalle donne fiorentine, tra le peggiori peccatrici; preannuncia poi che Firenze sarà punita per la sua immoralità.
Adesso tocca a Dante: gli spiega le ragioni del suo viaggio, lui che è ancora vivo. La sua misera condizione, provocata anche dall’amicizia con Forese (ricorda le loro tenzoni poetiche), mosse a commozione santi del Paradiso: Virgilio lo condurrà fino alla cima del monte, per poi lasciarlo alla guida di Beatrice.
-      Incontri » Forese Donati, un poeta amico di Dante; i due duellarono in versi con diverse tenzoni
-      Canti » salmo “Labia mea, Domine
24°
-      Sesta cornice: golosi (2)
» Mentre cammina, Dante continua il discorso con Forese, e gli chiede della sorte della sorella Piccarda, e di indicargli altri spiriti illustri. Forese racconta che Piccarda è in Paradiso, poi addita le anime del poeta Bonagiunta da Lucca, papa Martino IV e altri. Dante è curioso del primo presentatogli; lo spirito gli accenna di avvicinarsi e gli predice che sarò accolto esule nella sua città (Lucca) e gli chiede se lui sia quel poeta che inventò un nuovo stile poetico, riconoscendo i limiti della tradizione poetica precedente.La folla delle anime li oltrepassa velocemente, ma Forese si trattiiene ancora un po’ con l’amico, chiedendogli quando lo rivedrà; Dante dice che non sa quando morirà, ma che desidera avvenga presto perché la sua città è preda della depravazione morale. Forese predice la fine di Corso Donati, uno dei responsabili della decadenza di Firenze; quindi si congeda rincorrendo gli altri spiriti.Dante, rimasto con Virgilio e Stazio, scorge una folla di anime che geme sotto un albero da cui proviene una voce che invita a passare oltre, proclamando esempi di golosità punita.
Quindi proseguono finché non incontrano un angelo infuocato, che indica loro la strada per salire alla cornice superiore; Dante, abbagliato dal fulgore della figura, segue la voce dei maestri mentre l’angelo, sfiorandogli la fronte con un’ala, proclama la beatitudine della cornice.
-      Incontri » fine dell’incontro con Forese, incontro con Bonagiunta
-      Canti » no
25°
-      Settima cornice: lussuriosi
» Salgono in fila indiana per il passaggio stretto, fino alla settima cornice. Dante è incerto se porre una domanda che lo accora, ma Virgilio lo esorta. Chiede allora come le anime, che non hanno bisogno di cibo, possano dimagrire. Virgilio porta ad esempio un episodio dell’Eneide (Meleagro) e un’esperienza comune, poi lascia la parola a Stazio, perché la spiegazione sia esauriente. Il poeta latino parte dal spiegare la teoria della generazione dell’uomo di Aristotele per cui l’unione tra il sangue maschile e femminile generi il feto. La fede cristiana incrementa questa spiegazione: è poi lo spirito divino a conferire al feto la capacità di parola e di ragione. Alla morte, l’anima giunge nell’aldilà e lo stesso potere che dette forma all’embrione riproduce nell’area circostante una forma corporea simile al corpo che racchiudeva quella stessa anima nella vita sulla terra. Attraverso questa ombra corporea gli spiriti possono provare tutte le sensazioni e i sentimenti umani. Poi, i tre viaggiatori entrano nella settima cornice, avvolta da una grande fiamma; sono quindi costretti a viaggiare sul margine esterno. Attraverso il fuco passano le anime dei lussuriosi, che alternano al canto di un inno la proclamazione di esempi di castità.
-      Incontri » no
-      Canti » inno Summae Deus clementiae
26°
-      Settima cornice: lussuriosi (2)
» Dante avanza, e i raggi del sole al tramonto proietta la sua ombra sulle fiamme che occupano la cornice, e le anime che se ne accorgono ne rimangono meravigliate e chiedono il motivo a Dante, che però è distratto da un nuovo evento. Era, infatti, comparsa un’altra schiera di anime, i sodomiti: essi corrono incontro a uno del primo gruppo con cui scambia un casto bacio, e poi si dividono declamando esempi di lussuria punita, poi riprendono il proprio cammino.  Riprendendo l’attenzione, Dante spiega che è ancora vivo e racconta il motivo del suo viaggio, poi domanda chi siano queste due schiere di peccatori. Lo stesso spirito che l’aveva interpellato spiega che su quella cornice si purifica il peccato di lussuria: da una parte gli omosessuali, dall’altra gli eterosessuali che seguirono l’istinto senza il freno della ragione. Si presenta come Guido Guinizzelli, il poeta che fu per Dante il modello delle rime amorose, e anche il suo migliore amico, verso cui Dante si mostra rispettoso. Lo spirito gli indica allora l’anima di un altro poeta che considera di gran lunga maggiore di lui (il trovatore Arnault Daniel), che superò tutti i suoi contemporanei, sebbene molti sostengono che gli sia superiore Giraut de Bornelh, ma senza ragione. Il fatto è comparabile con ciò che avvenne con Guittone, prima che venisse smascherato da altri poeti. Gli chiede infine di pregare per lui in paradiso, poi si allontana. Dante interpella quindi Arnault, che risponde nella lingua provenzale presentandosi nel nome e nel suo peccato e chiedendo anch’egli una preghiera di intercessione; poi scompare anche lui.
-      Incontri » Guido Gunizzelli e Arnault Daniel
-      Canti » no
 27°
-      Arrivo sulla cima del purgatorio
» E’ il tramonto quando i tre viaggiatori incontrano l’angelo guardiano, che li avverte della sfida che devono affrontare per giungere in cima al monte: passare attraverso le fiamme. Dante muore dalla paura, ma Virgilio cerca di rassicurarlo invitandolo a fidarsi di lui e ricordandogli altri momenti difficili del loro viaggio in cui con il suo aiuto, ha affrontato difficoltà che gli sembravano invalicabili; ma Dante è pietrificato dal terrore. Allora Virgilio gli ricorda che al di là delle fiamme c’è Beatrice ad aspettarlo, nominando così l’unica persona per cui Dante potesse affrontare la paura. La guida entra dunque nel fuoco, seguito da Dante ancora incerto e da Stazio; durante il percorso Virgilio continua a confortarlo parlando di Beatrice, mentre un canto guida il loro cammino. Usciti dalle fiamme, in prossimità della scala, sentono una voce incoraggiarli a salire prima che cali la notte, ma l’oscurità cala tanto presto che i viaggiatori si coricano sui primi gradini. Dante si addormenta contemplando le stelle e in sogno gli appare una giovane donna in un giardino pieno di fiori, si presenta come Lia, parla della sorella Rachele: racconta che mentre lei è appagata dall’azione, la sorella lo è dalla contemplazione. All’alba i tre riprendono la scalata, e Dante quasi corre sui gradini, spinto dal desiderio di vedere Beatrice. Arrivati all’ultimo gradino, Virgilio riconosce che ora ha completato il suo compito e non c’è più bisogno della sua guida, e i due amici si danno un commuovente addio. Da solo, Dante aspetta Beatrice nel giardino dell’Eden, può seguire da sé il proprio desiderio perché ora la sua volontà è sanata, e può quindi essere padrone di se stesso.
-      Incontri » in sogno Dante incontra Lia, sorella di Rachele
-      Canti » beatitudine Beati mundo corde!
28°
-      Nella foresta del paradiso terrestre
» Dante si avvia verso la foresta, da cui spira un’aria dolce che smuove le fronte degli alberi, su cui gli uccelli cantano. Camminando nella selva, ammira la bellezza degli alberi e del ruscello dall’acqua purissima che accompagna il suo cammino. Al di là di esso, scorge una donna che, da sola, canta e coglie fiori: è Matelda. Dante le chiede di avvicinarsi per poter intendere le parole del suo canto; lei, come danzando, giunge al fiumiciattolo e alza gli occhi verso Dante, che è colpito dalla luminosità del suo volto e dal suo sorriso. Lei invita i tre poeti a non stupirsi del suo sorriso, perché ella vive nel mondo bellissimo che Dio ha raccolto tutte le meraviglie della creazione; chiede poi a Dante se non abbia altre domande, perché il suo compito è quello di sciogliere i suoi dubbi. Dante chiede allora perché ci siano vento e acqua, fenomeni tipici del mondo terreno, in quel posto; Matelda spiega che quello è il paradiso terrestre, creato da Dio come dimora per l’uomo prima che scegliesse il peccato; esso sorge sulla cima di un monte per evitare i turbamenti atmosferici, dunque il vento è provocato da un’altra causa, cioè dal movimento rotante dei cieli. L’aria, sfiorando gli alberi, rimane impregnata della loro virtù generativa, consentendo così la riproduzione di ogni pianta. Per quanto riguarda l’acqua, essa proviene da una fonte che dipende direttamente dalla volontà divina, da cui si diramano due fiumi: quello ai loro piedi, il Lete, che tocca la memoria del peccato, e l’Euonoè, che rende la memoria del bene compiuto. Infine rivela che quel luogo coincide con ciò che gli antichi chiamarono “età dell’oro”; a questa scoperta, Dante scorge nascere un sorriso sulla bocca dei due poeti latini.
-      Incontri » Matelda
-      Canti » canto di Matelda
29°
-      Paradiso terrestre
» Matelda si incammina cantando lungo il fiume Lete, e Dante la segue sull’altra riva, finché non lo ferma: improvvisamente, un fascio di luce intensa illumina la foresta, e si ode un dolce suono, che si delinea poi come un canto, e nel sottobosco l’aria si fa rossa come fuoco. L’autore prorompe quindi in un’invocazione alle Muse, che lo aiutino a descrivere uno spettacolo così grandioso come quello che seguirà. Dante vede scorgere da lontano quello che gli sembrano sette alberi che, avvicinandosi si rivelano invece sette candelabri, con fiamme luminosissime; chiede a Virgilio spiegazioni, ma anche la sua guida è senza parole. Matelda richiama quindi la loro attenzione verso la processione che va delineandosi dietro i candelabri. Le sette fiammelle lasciano nel cielo la scia dei colori dell’iride; poi seguono ventiquattro vegliardi vestiti di bianco e incoronati di gigli, che cantano un salmo; poi quattro animali con le piume delle ali ricoperte di occhi (erano stati descritti da Ezechiele e da san Giovanni nell’Apocalisse). In mezzo ai quattro animali avanza un carro, trainato da un grifone; alla destra del carro danzano tre donne: una rossa, una verde, una bianca; alla sua sinistra altre quattro vestite di porpora. A chiudere la processione c’è un gruppo di vecchi vestiti di bianco incoronati di fiori vermigli: prima una coppia, poi una fila da quattro, poi un ultimo che avanza da solo, come addormentato. Il carro giunge vicino a Dante, e si ferma quando sente il rombo di un tuono.
-      Incontri » processione: 7 candelabri
» 24 vegliardi
» 4 animali dell’apocalisse
» al centro di essi un carro trainato da un grifone
» 3 donne alla destra del carro (rossa, verde, bianca)
» 4 donne alla sinistra del carro (vestite di porpora)
» 2 + 4 + 1 vecchi
-      Canti » Matelda canta il salmo 31: Beati quorum tecta sunt peccata!
» si sente sempre più distinto il canto Osanna
30°
-      Paradiso terrestre
» La processione si ferma e i ventiquattro vegliardi si volgono verso il carro; uno di loro canta e improvvisamente appare una moltitudine di angeli che, cantando a loro volta, cospargono tutto lo spazio di fiori. Tra i petali, Dante vede comparire un donna velata di bianco, nello stesso modo in cui all’alba si scorge il sole offuscato dai vapori mattutini: indossa un manto verde e un vestito rosso come il fuoco. Dante sente dentro di sé la potenza del suo antico amore, e rimane colpito da quella forza che ugualmente l’aveva trafitto da appena fanciullo. Disorientato, si volge a cercare Virgilio, ma non lo trova: silenziosamente se n’era andato, e Dante piange per questa perdita, nonostante fosse nel paradiso terrestre. La donna chiama Dante per nome, e lo esorta a non piangere più, perché presto avrà un motivo ben più grave per farlo; Dante si volta a guardarla, e vede sul volto della sua Beatrice uno sguardo severo. La donna si rivela e gli chiede come abbia osato, lui peccatore, salire il sacro monte. Dante abbassa gli occhi dalla vergogna, mentre gli angeli intonano canti di compassione per lui che, sentendoli, scoppia ancora in lacrime. Beatrice spiega quindi agli angeli come Dante avesse ricevuto una grazia straordinaria e grandi doti dalla natura che, finché lei fu in vita, lo mantennero sulla retta via; quando morì invece si lasciò abbindolare dai beni terreni, perdendo così se stesso. Per questo scese agli inferi, e nel Limbo pregò Virgilio di assumersi il compito di fargli da guida per l’Inferno ed il purgatorio.
-      Incontri » Beatrice
-      Canti » canto del vegliardo: Vieni, sponsa, de Libano
              » canti degli angeli: Benedictus qui venit! e anche Manibus, date lilia plenis!
              » canto degli angeli mossi a compassione da Dante: In te, Domine, speravi
31°
-      Paradiso terrestre
» Beatrice intima a Dante di confessare le sue colpe, ma egli, confuso e smarrito, non riesce a parlare, neanche dopo un secondo invito. È la donna a sbattergli in faccia tutti i suoi peccati, e Dante non può che dire un flebile “sì” di ammissione delle sue colpevolezze, per poi prorompere in un gran pianto. Beatrice vuole sapere le ragioni del suo traviamento, e lui confessa che dopo la sua morte ha ceduto a desideri terreni, e non più divini. La donna, con un tono più compassionevole e dolce, spiega a Dante la natura del suo errore: quando morì e venne a meno la sua bellezza, non avrebbe dovuto lasciarsi attrarre da bellezze minori ed effimere; vedendo Dante con la testa bassa, vergognoso e pentito, lo esorta ad alzare lo sguardo, e lui la guarda con fatica. Interrompendo gli angeli la pioggia di fiori, Dante la può vedere in tutta la sua bellezza, e per l’intensità del rimorso Dante sviene. Ritornato in sé, Matelda lo fa immergere nel Lete, con la testa sott’acqua per farlo bere. Viene poi affidato alle quattro donne danzanti, che lo conducono cantando davanti al grifone e lo invitano a guardare Beatrice negli occhi, in cu scorge il riflesso del grifone. Le altre tre donne invece invitano Beatrice ad alzare il velo e a mostrarsi in tutto il suo splendore. Dante auctor si trova incapace di descrivere la sua bellezza divina.
-      Incontri » ancora Beatrice
-      Canti » no
32°
-      Paradiso terrestre
» Dopo aver contemplato Beatrice, Dante è invitato a seguire la processione, che si era avviata verso la foresta. Arrivano ad un altissimo albero spoglio, l’albero della scienza del bene e del male, inaridito per colpa di Adamo. Il carro si ferma, Beatrice scende dal carro che viene legato dal grifone all’albero. Al contatto, la pianta si ricopre di fiori color porpora, mentre un canto accompagna l’avvenimento. Dante, inebriato, si addormenta, finché un bagliore e una voce che lo chiama lo ridestano; è Matelda, ancora accanto a lui. Il grifone e i personaggi della processione risalgono al cielo, invece Beatrice rimane accanto al carro, circondata dalle sette virtù, e preannuncia a Dante che sarà con lei per sempre in paradiso. Improvvisamente un’aquila piomba sull’albero, dilaniandolo e percuote violentemente il carro, in cui vi si introduce anche una volpe, che viene scacciata da Beatrice; l’aquila torna sul carro a deporvi le penne, e infine un drago emerge da terreno, squarcia con la coda il carro e ritraendola ne porta via un pezzo. Così manomesso, il carro si ricopre tutto con le penne dell’aquila, ed emette sette teste cornute; sopra quello che rimane del carro appare una puttana che amoreggia con un gigante, che la frusta per uno sguardo rivolto a Dante. Infuriato, il gigante scioglie il carro dall’albero, conducendolo nella foresta, dove scompare.
-      Incontri » aquila, volpe, drago, puttana, gigante
-      Canti » mentre l’albero fiorisce si sente un canto che non viene specificato, ma è talmente dolce che
                 Dante non riesce fisicamente a sopportare la melodia, e cade in uno stato tra il sonno e l’estasi
33°
-      Paradiso terrestre
» Beatrice, rattristata dalla scomparsa del carro, ascolta i salmi delle sette virtù, poi invita Dante e Stazio a seguirla insieme a Matelda. Intanto fa avvicinare Dante, rassicurandolo e invitandolo a farle domande; ma Dante si vergogna, e Beatrice, notandolo, lo esorta a vincere il timore. Intuendo poi le perplessità di Dante, spiega il significato degli avvenimenti accaduti poco prima, e preannuncia l’intervento della giustizia divina, personificata in un imperatore, che ucciderà il gigante e la puttana: lui avrà il compito di dire a tutti gli uomini ciò che ha visto e sentito. Spiega poi che l’albero che hanno appena lasciato è quello della conoscenza, il cui frutto fece peccare Adamo ed Eva; e anche se Dante non capisce tutte le spiegazioni date, è bene che le ascolti, affinché gli rimanga impressa almeno una traccia per poterla riferire in terra. Inoltre, questa sua incapacità a comprendere è dovuta al fatto che in vita si è abbandonate alle credenze di fuorvianti filosofie, ma Dante non se ne ricorda perché, bevendo l’acqua del fiume Lete, anche la sua memoria si è lavata dal ricordo del peccato. Giungono quindi davanti ad una fonte da cui sgorgano insieme due fiumi, come fanno il Tigri e l’Eufrate, e Dante chiede il nome di quelle acque, ma Matelda ricorda di avergli già spiegato la natura di quei fiumi. Poi, su invito di Beatrice, conduce Dante e Stazio sulla sponda dell’Eunoè, facendogli bere quell’acqua; Dante si sente purificato ed è pronto per andare in paradiso.
-      Incontri » no
-      Canti » salmo 78 che apre il canto: Deus, venerunt gentes